Nuova Discussione
Rispondi
 
Pagina precedente | 1 | Pagina successiva
Vota | Stampa | Notifica email    
Autore

dubbi su salvaguardia sito e reinserimento in natura

Ultimo Aggiornamento: 27/02/2023 11:21
13/02/2023 18:21
 
Email
 
Scheda Utente
 
Modifica
 
Cancella
 
Quota
Post: 11.506
Registrato il: 08/02/2008
Città: ABETONE
Età: 39
Sesso: Maschile
Amministratore
H.tonta
OFFLINE

Ciao Pana13,

sono tutte domande molto interessanti e spero quindi di risponderti in maniera sintetica ed esaustiva. Innanzitutto la conservazione in se prevede più punti o quesiti, ovvero cosa conservare, dove conservare e come conservare. Il primo punto verrebbe da pensarlo come la conservazione delle specie minacciate o a rischio di estinzione, ma è molto più di questo in realtà. Se pensassimo al termine biodiversità nel suo complesso, ovvero non comprendente solo la ricchezza di specie di una determinata zona, ci sarebbe da considerare anche la diversità degli ecosistemi, degli habitat, comunità, popolazioni, la vegetazione (insieme degli individui appartenenti a più specie che si trovano in coerenza con un dato sito, per mezzo dei quali, peraltro, si identificano iprecedenti habitat), le interazioni fra le varie specie, i microorganismi e, dulcis in fundo, un parametro importantissimo che è la genetica. Tanto per dare un’idea: potremmo avere una stessa specie magari ben distribuita nell'emisfero boreale e con un flusso genetico continuo fra le varie popolazioni vicine (es. Drosera rotundifolia in nord europa); o ancora, magari alla periferia del suo areale, assistere alla presenza di alcune stazioni relitte (dai tempi delle glaciazioni) estremamente separate su scala spazio/temporale rispetto alle precedenti alle alte latitudini (popolazioni relittuali di D. rotundifolia nell'Italia peninsulare). In queste situazioni, dato il grande periodo di isolamento, possono accadere degli eventi di differenziazione genetica che potrebbero portare pian piano a una conseguente speciazione delle stesse (speciazione allopatrica) e quindi, dovrebbero essere considerate con un occhio di riguardo in virtù delle loro particolarità genetiche (trattandole per esempio come delle unità significative dal punto di vista gestionale, evolutivo o genetico). Questa è per esempio la situazione di molte popolazioni di pinguicole endemiche che si son ritrovate isolate, magari in valli distinte, in piccoli anfratti rocciosi separate da diverso tempo; o ancora le stazioni relitte e più meridionali di Drosera rotundifolia che gestiamo con vari enti al centro Italia: in quest’ultimo caso la caratteristica var. corsica può essere vista, al di la del carattere fenotipico ben presente, anche come una differenziazione a livello genetico che ha permesso a queste popolazioni (attualmente le più meridionali e verosimilmente fra le più antiche) di sopravvivere meglio a quel determinato ambiente in contesto submediterraneo; o ancora, è stata ipotizzata come una sorta di reazione a uno stress, dovuto alla loro lunga presenza in un contesto sempre più ai margini del loro optimum ecologico. Qui si potrebbe aprire un’ulteriore parentesi anche sul lato riguardante la vegetazione e gli habitat: essendo D. rotundifolia e gli sfagni ancora presenti al Centro Italia dei relitti glaciali, mentre Osmunda regalis (la famosa Felce florida) un relitto tropicale terziario, avremmo un tipo di vegetazione peculiare (un'associazione locale) che ci segnala questa interessante fitocenosi non presente in quota o alle alte latitudini dove le torbiere abbondano. E quindi anche sul discorso vegetazionale ci sarebbe da fare un discorso a parte, visto che il connubio fra specie di clima freddo (la flora periglaciale giunta con le glaciazioni quaternarie) e tropicale (del precedente Terzario) è una situazione particolarmente difficile da riscontrare e meritevole di conservazione. Gli habitat di interesse comunitario della comunità europea (inclusi quelli prioritari) presentano generalmente un valore maggiore rispetto ai livelli che stanno subito sotto (comunità, popolazioni, tipi di vegetazione, specie, genetica ecc.) in quanto maggiormente inclusivi di tutte quelle varie situazioni che, a livello di biodiversità, ci è pressoché impossibile studiare nella loro interezza. Pensiamo anche a tutti i microorganismi, batteri ecc. che proliferano in un habitat insieme a piante e animali, per non parlare delle loro interazioni, forme di competizione e plasticità fenotipica per reagire a certe situazioni ambientali. In questi casi, come insegnano spesso all’università, bisognerebbe allontanarci dal termine stesso di BIODIVERSITA’, in quanto quest’ultima non sarà mai definibile completamente in un dato luogo; potremmo solo tentare di definire bene solo alcune parti della stessa. Gli habitat, dal punto di vista della conservazione, rappresentano gli oggetti di elezione su cui viene più comunemente ed efficacemente esplicata: salvaguardando un habitat si riesce a mantenere, generalmente in soddisfacente stato di salute, tutte le entità presenti al suo interno e con minor dispendio energetico ed economico. Sfortunatamente, quando c’è stato da proporre una lista degli stessi per la comunità europea, è stata adottata una visione europocentrica, probabilmente per mancanza di collegamento tra mondo scientifico italiano e ambiente legislativo europeo. Ciò si è tradotto nell’assenza di molti habitat italiani peculiari che ancora attendono di essere accettati, oppure nello scarso riconoscimento di alcune situazioni (es. molte zone umide) non adeguatamente attenzionate. Per esempio, se consultassimo gli habitat relativi alle torbiere, noteremmo che sono solo habitat comunitari anziché prioritari (gli habitat prioritari possono beneficiare di fondi europei tramite i noti progetti LIFE), mentre qua da noi, lo sappiamo bene, le torbiere sono situazioni parecchio frammentarie e in forte regressione; ci è andata di lusso almeno per le torbiere boscate (rarissime nel nostro paese) o le sorgenti pietrificanti con formazione di travertino del Cratoneurion (sostanzialmente le pareti umide calcaree dove talvolta possono essere presenti pure le pinguicole endemiche e non) figuranti attualmente come habitat prioritari. In quest’ultimo caso, nonostante le pinguicole rientrino fra le specie diagnostiche necessarie per definire l’habitat, sono sovente scarsamente rappresentate a livello statistico rispetto ad altre entità; l’interpretazione viene generalmente fatta sulla presenza di alcune briofite incrostanti (alleanza Cratoneurion commutati) che, grazie all’attività di fotosintesi, permettono di spostare l’equilibrio di reazione Ca(HCO3)2 → CaCO3 + H20 + CO2, con precipitazione del carbonato di calcio presente nelle acque dure (quello che poi darà origine alla matrice calcarea); a queste poi verranno aggiunte, se presenti, anche le poche piante superiori ( Saxifraga aizoides, Epilobium alsinifolium, Cardamine, Parnassia palustris, volendo anche Pinguicula sp. nei rari casi) per dare la combinazione fisionomica di riferimento con cui si risalirà all’habitat 7220* del Cratoneurion (i rilievi vegetazionali fitosociologici rappresentano lo strumento più utilizzato per risalire a un determinato habitat di interesse comunitario). Tutti gli habitat della comunità europea (nonché le specie di interesse comunitario) devono comunque essere monitorati ogni 6 anni tramite i ben noti rilievi vegetazionali e floristici, comunicandone poi gli esiti alla Commissione Europea; questo deve essere fatto sia per gli habitat all'interno della rete Natura2000 previsti dalla Direttiva (ZSC, SIC, ZPS), sia per gli habitat comunitari noti all'esterno (avete presenti i rilievi vegetazionali sulle dune costiere effettuati in concomitanza di alcuni dannosi concerti?). Gli obiettivi che si intendono perseguire con questa pratica sono diversi. Per esempio: il monitoraggio all'interno dei siti Natura2000 è fatto con lo scopo di verificare la bontà della loro gestione ai fini della conservazione di specie/habitat; o ancora, se effettuato all'esterno, darà prova dell’efficacia della Direttiva nello stato Membro nel suo complesso.

C’è anche un ultimo aspetto, anche questo estremamente importante, che riguarda la conservazione: i servizi ecosistemici. L’umanità esiste grazie ai servizi ecosistemici e alle risorse naturali ottenute dall’ambiente, dalla presenza di cicli biogeochimici e interazioni che governano la vita sul nostro pianeta ogni giorno. Pensiamo anche alla semplice conservazione di una piccola torbiera come le nostre: oltre a favorire la sopravvivenza di un habitat, fitocenosi peculiari, specie in forte rarefazione, genetica ecc. c’è anche tutto il discorso connesso alla disponibilità idrica: mantenendo la zona umida funzionale, evitando che la successione vegetazionale la trasformi dapprima in una prateria e poi in arbusteto, potrà continuare ad alimentare un bacino antincendio, importantissimo per spegnere gli incendi estivi; o ancora, se pensassimo alle grandi estensioni delle torbiere alle alte latitudini, ci verrebbe sicuramente in mente la loro gran capacità di stoccare ingenti quantità di carbonio atmosferico riducendo il surriscaldamento globale; o ancora mantenere, nelle loro profondità, tutta la storia climatica degli scorsi millenni, permettendoci di ricostruirla tramite pollini e resti fossili di piante. A tutti questi servizi ecosistemici (di approvvigionamento, culturali, di regolazione, di supporto) potremmo quindi dare un valore che, considerato nella sua globalità, risulterebbe inestimabile, rendendo possibile ogni giorno la nostra presenza su questo pianeta. O almeno fino a quando non li scombineremo del tutto.

Adesso partirò a rispondere alle domande proposte facendo una rapida premessa: l’introduzione di specie aliene, propaguli o ceppi genetici, a meno che non sia seguita da enti preposti e con particolari finalità legate alla gravità di determinate situazioni, rappresentano una pratica vietata per legge. Non solo, alcune di queste introduzioni volontarie o fatte da amatorialmente potrebbero comportare scompensi genetici nelle popolazioni, alterare il loro assetto genetico o, come già successo nel caso dell’aliena P. hirtiflora in Francia, andare a competere con l’autoctona P. reichenbachiana, rendendo necessarie delle misure di contenimento (e quindi costi economici) per salvarla. Oltre a questo è possibile, senza farci caso, introdurre specie di funghi, briofite o epatiche presenti nei vasi di nostra coltivazione, alcuni dei quali potenzialmente dannosi per molte specie autoctone presenti. Mi viene in mente per esempio il caso di Campylopus introflexus, briofita invasiva arrivata dall’emisfero australe, che ha comportato danni sui sistemi dunali del nord europa, negli ambienti geotermali e, dulcis in fundo, anche sui bordi delle torbiere e sfagnete nostrane. In breve, quando riusciva a svilupparsi, poteva andare a compromettere i nuclei di Drosera, epatiche rare ecc. scalzandoli e poi facendoli seccare durante l’estate: il recupero dei nuclei di sfagno, ad ogni modo, ha permesso di controllarlo efficacemente, riducendo quindi il rischio di una sua espansione. Dico questo perché nei nostri vasi è spesso presente C. pyriformis, specie appartenente allo stesso genere e molto vicina come comportamento, che potrebbe sfuggire alla coltivazione e andare a comportare danni in certi habitat. Come vedete bisogna sempre avere l’occhio su tutto quando si vanno a fare considerazioni su queste tematiche delicate.


1) Mi sembra di aver capito che, se un sito dove cresce un pianta carnivora viene distrutto non ci sia molto da fare.. ma qual e' la situazione nel caso che il sito sia "distrutto" solo temporaneamente?



In quel caso la cosa migliore da fare, qualora ci si appoggiasse a un'associazione, sarebbe di andare a chiedere ai proprietari, forestali, comune o regione di imbastire eventualmente un progetto in sinergia per salvaguardarla. Il procedimento non è affatto facile e spesso pieno di ostacoli, ma in genere ci siamo sempre mossi così in aipc per tentare di gestire certe situazioni sotto la supervisione di professionisti.


colonia di PC-A. Giusto un esempio.
In teoria, dopo qualche anno i lavori finiscono e la zona si dovrebbe rispristinare, con livello idrico originale.



Qui dipende. Ci sono zone umide che una volta recintate (vedi il caso delle nostrane in clima submediterraneo) necessiterebbero costantemente di interventi di sfalcio per impedire la successione vegetazionale guidata da specie termofile maggiormente favorite. Specie relittuali delle glaciazioni (sfagni, drosere) e altre entità di pregio non sopravvivrebbero a lungo senza la presenza di un pascolo moderato o di sfalci ben pianificati: verrebbero in breve tempo sopraffatte dalle specie banali dei bordi (es. Molinia, Rubus, Ulex, Pteridium, Erica a bassa quota, o Nardus, Rubus, Briza in situazioni montane su substrato acido)...sono entità particolarmente suscettibili al cambiamento climatico e scarsamente competitive nei confronti della vegetazione mediterranea in espansione. Tanto per fare un'esempio contrapposto: la loro eccezionale presenza nei nostri territori potrebbe essere comparabile al poter osservare piccoli lembi di macchia mediterranea all'interno della tundra artica. Una situazione quindi rarissima e meritevole di essere conservata. Alcuni di questi habitat di torbiera, vedi il caso di alcune situazioni nelle nostre regioni, sono stati mantenuti in buono stato di conservazione fino a quando si praticava la raccolta del "Sarello" (Carex elata) per l'impagliatura; cessata questa attività, molte zone zone umide si sono evolute in canneti o altre fitocenosi con specie banali (spesso con partecipazione di entità aliene invasive), perdendo molte elementi di interesse conservazionistico.


Secondo voi potrebbe essere utile/permesso/giusto prendere semi di PC-A, conservarli, e spargerli sul sito una volta che tutto e' tornato alla normalita'?



E' una cosa che dovrebbero fare e seguire le università tramite le banche del germoplasma. Noi lo potremmo fare solo in casi rarissimi, solo con determinate specie e, comunque, sempre sotto la loro supervisione per via della facilità di contaminazioni varie. Per esempio avevamo in mente di fare un progetto di conservazione su un ceppo di Utricularia vulgaris estinto in natura negli orti botanici e, magari, allargare a qualche coltivatore di fiducia, ma ciò richiederebbe un controllo ferrato che dobbiamo ancora mettere a punto con gli orti stessi (oltre a un'analisi genetica del materiale fresco con quello storico d'erbario).
Per le drosere la situazione si complica ulteriormente: oltre a essere più efficace e meno dispendioso proteggerle in natura con la gestione del loro habitat, la coltivazione ex situ presenta dei grossi problemi: pensiamo alla contaminazione genetica dovuta da individui conspecifici (magari giunti nella nostra collezione con i vasetti da garden o con gli sfagni del nord europa); alla possibilità di perdere il ceppo oggetto fra i nostri vasi oppure introdurre, assieme alle piante stesse, possibili briofite, funghi e/o contaminanti che poi andranno a minare l’habitat originario. Questa cosa è stata provata tante volte in trent’anni ma è risultato si è sempre tramutato in un fallimento. L’unico procedimento che potrebbe funzionare, già in parte sperimentato, è la coltivazione in vitro con successivo impianto su substrato sterilizzato: in quel modo uno ha la certificazione di mantenere il ceppo genetico intatto senza possibilità di contaminarlo con altro (sempre che l’interesse sia nell'ambito della genetica di popolazione e non tanto nel salvaguardare la specie in se, magari piuttosto diffusa).
Il vitro, tuttavia, può permettere l’insorgenza di mutazioni nel pool genetico originale e diminuire consistentemente la variabilità genetica, specie se le piante vengono moltiplicate costantemente per talea fogliare. E qui si entra in un discorso più ampio che prende in considerazione vari aspetti di tipo genetico: deriva genetica (ovvero che la popolazione naturale vada incontro a una perdita di alleli essenzialmente stocastica (dovuta al caso), col risultato di avere, alla fine, un numero di individui molto simili a livello genetico e quindi più vulnerabili ai cambiamenti ambientali); depressione da imbreeding (incrocio fra individui simili con riduzione di fitness nella progenie), da outbreeding (la progenie prodotta, derivante dall’incrocio di due individui di stazioni molto lontane, perde l’adattamento a entrambi gli ambienti di origine) e la minima popolazione vitale (popolazione in grado di sopravvivere per un certo lasso di tempo, calcolata su fattori demografici e genetici): quest’ultima viene spesso calcolata per verificare quanto un certo potenziale genetico (o individui prossimi alla reintroduzione) potranno tirare avanti, nel corso del tempo, per sostenere una popolazione e non vanificare gli sforzi ex situ; questo è anche il motivo per cui poche piante coltivate di un ceppo locato sarebbero completamente inutili per le introduzioni: la scarsa variabilità genetica, unità alla selezione praticata in cattività, produrrebbero delle popolazioni generalmente non in grado di autosostenersi dal punto di vista genetico per più generazioni, insieme a tutte le altre problematiche viste prima. Tutto questo va valutato antecedentemente al progetto di reintroduzione effettivo, analizzando il pool genetico delle varie popolazioni (distanze genetiche, eterozigosità osservata/attesa) per capire quali potrebbero essere geneticamente le più lontane o più vicine, stabilendo così delle priorità anche in seno alle differenze genetiche riscontrate. Va da se che se una popolazione divergesse nettamente dalle altre, assumerebbe automaticamente un interesse maggiore dal punto di vista della conservazione: maggiore sarà la distanza genetica, più potenziale evolutivo possiederà per diventare qualcosa di a se stante, rendendo quindi necessaria una gestione separata.


Riguardo alla conservazione ex situ...

La conservazione ex situ (utilizzata spesso come ultima spiaggia) prevede un costante flusso di materiale genetico dalla popolazione autoctona e la coltivazione praticata negli orti botanici, in maniera tale che si mantenga una popolazione “virtuale” ma pur sempre collegata con quella autoctona; per le piante carnivore, in virtù dei rischi presentati prima, è estremamente difficoltosa e pericolosa; oltrettutto, tenendo in vaso le piante per un certo tempo, si avvrebbe comunque solo un piccolo campione del pool genetico originale della stazione, spesso non sufficiente poi per evitare futuri problemi genetici. Per questo motivo viene effettuata sempre un'alisi genetica sulle popolazioni autoctone, in grado di evidenziare l'assetto genetico presente e prevederne quello futuro (sia con che senza reintroduzioni).



) Mettiamo il caso che la stessa specie di PC-A cresca anche in un altro sito (PC-B).
- Potrebbe andar bene prendere PC-B da sito B e trasportarla al sito A?
- Prendere semi di PC-B e spargerli su sito A?



In una situazione italiana, in virtù di quanto abbiamo già detto, comporterebbe un danno enorme oltre a essere vietato per legge. Può capitare nel nord europa dove tutte le zone umide sono in continuità e quindi anche il flusso genetico fra le varie popolazioni di una data specie è continuo. Qua da noi, dove le torbiere sono decisamente frammentate, all’estremo sud del loro centro di distribuzione attuale, abbiamo delle popolazioni di pc con una propria storia genetica alle spalle, in corso di differenziazione per isolamento e quindi sostanzialmente adattate a quei determinati contesti o microclimi locali. L’ingresso di ulteriori alleli distruggerebbe inevitabilmente la storia genetica di queste stazioni, con probabile perdita dell’adattamento e, conseguentemente, di alcuni caratteri fenotipici acquisiti nel corso di secoli/millenni.

Le zone umide dobbiamo vederle come “isole” in cui si sono conservati tipi di vegetazione, specie e pool genetici peculiari. Per quello dobbiamo adottare dei metodi che ci permettano di conservarle come singole unità mantenendo il loro attuale isolamento. Un grosso pericolo che riguarda noi appassionati è legato al trasporto involontario di semi o propaguli dalle nostre collezioni che potrebbero rimanere adesi ai vestiti ed essere trasportati ovunque. Celebri sono i casi in nuova zelanda (Drosera capensis vietata dalla vendita per compromissione di molte zone umide autoctone) o ancora in Patagonia (presunto trasporto di Drosera rotundifolia che ha messo in pericolo molte entità autoctone).

E quindi importante prestare particolare attenzione alla pulizia delle nostre scarpe e vestiti nel caso di visite alle zone umide nostrane, dato che basta veramente poco per comprometterle.


- ci sono altre cose che sono permesse o giuste da fare, che magari non mi sono venute in mente?



Ci penserò su, ma sicuramente sostenere gli enti e le associazioni che portano avanti questi progetti potrebbe essere già un buon punto di partenza.
[Modificato da pandalf85 25/02/2023 18:16]
Amministra Discussione: | Chiudi | Sposta | Cancella | Modifica | Notifica email Pagina precedente | 1 | Pagina successiva
Nuova Discussione
Rispondi

Feed | Forum | Bacheca | Album | Utenti | Cerca | Login | Registrati | Amministra
Crea forum gratis, gestisci la tua comunità! Iscriviti a FreeForumZone
FreeForumZone [v.6.1] - Leggendo la pagina si accettano regolamento e privacy
Tutti gli orari sono GMT+01:00. Adesso sono le 20:17. Versione: Stampabile | Mobile
Copyright © 2000-2024 FFZ srl - www.freeforumzone.com