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dubbi su salvaguardia sito e reinserimento in natura

Ultimo Aggiornamento: 27/02/2023 11:21
13/02/2023 10:33
 
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Ciao a tutti.. non so se questa e' la sezione giusta per questo post. Ad ogni modo vorrei capire qualcosa in piu' su questo argomento molto delicato e vi espongo alcuni dubbi.

1) Mi sembra di aver capito che, se un sito dove cresce un pianta carnivora viene distrutto non ci sia molto da fare.. ma qual e' la situazione nel caso che il sito sia "distrutto" solo temporaneamente?

Provo a spiegarmi con un esempio:
Mettiamo che ci sia un sito "A" dove cresce una pianta carnivora "PC-A". Mettiamo il caso che, per esempio, per via di un intervento umano a monte del sito ed il livello idrico di tutta l'area si abbassi notevolmente, mettendo a rischio la colonia di PC-A. Giusto un esempio.
In teoria, dopo qualche anno i lavori finiscono e la zona si dovrebbe rispristinare, con livello idrico originale.

- Secondo voi potrebbe essere utile/permesso/giusto prendere semi di PC-A, conservarli, e spargerli sul sito una volta che tutto e' tornato alla normalita'?
- Coltivare PC-A a casa o altrove e poi reinserirla? (magari da seme)

2) Mettiamo il caso che la stessa specie di PC-A cresca anche in un altro sito (PC-B).
- Potrebbe andar bene prendere PC-B da sito B e trasportarla al sito A?
- Prendere semi di PC-B e spargerli su sito A?

- ci sono altre cose che sono permesse o giuste da fare, che magari non mi sono venute in mente?

3) Un'ultima domanda, che viene fuori da una situazione che potrebbe essere reale. Diciamo che PC-A sopravvive negli anni grazie a spostamenti dell'area di crescita. PC-A non puo' competere con la velocita' di crescita e forza di alte erbe, arbusti ed alberi, ma si avvantaggia del fatto che spesso nuove zone torbose aperte si creano naturalmente e PC-A "migra" in queste zone velocemente. Ora, l'urbanizzazione spietata ha notevolmente ridotto il numero delle possibili zone e nelle poche rimaste la competizione per lo spazio e' molto aggressiva. E' giusto secondo voi "pulire" l'area da arbusti e alberi ed erba per lasciar un po' di spazio a PC-A? (Da una parte PC-A sta scomparendo nella zona per intervento umano.. ma gli arbusti che vivono con lei si adattano meglio e piu' velocemente ai cambiamenti e probabilmente avrebbero piu' diritto di esser lasciati in pace. Mi chiedo se sia giusto favorire una specie, anche se piu' rara). Cosa ne pensate?

spero di essermi spiegato abbastanza bene... e grazie in anticipo per ogni vostra opinione :)
13/02/2023 11:18
 
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Argomento interessante ma anche molto molto molto e ripeto molto delicato per il fatto che qualsiasi cosa si faccia si rischia, anche in buona fede, di far danni molto seri.
Penso che certi interventi vadano lasciati fare ad associazioni e/o università con le quali si può sempre collaborare magari avendo esperienza di anni nella coltivazione di una determinata pianta di un determinato areale a rischio.
Per esempio, io coltivo da 14 anni P. hirtiflora di Rossano Calabro (ho appena pubblicato un post nella sez. ' carnivore in coltivazione') ed ho sempre rifiutato di coltivare altre piante del "P. crystallina complex" per non 'inquinarla geneticamente'. Tutte le mie piante sono discendenti da quelle nate da semi che ricevetti da Giuseppe Rosati (=kimura= qui su Rex) nel 2009 e che lui aveva ottenuto da piante recuperate da una parete di arenaria franata e che quindi erano destinate a morire.
Se un giorno dovessero servire piante per un eventuale progetto di reinserimento in natura io sarò ben felice di fornirle, avendo la certezza e potendo garantire che le mie piante hanno la genetica pura di quelle di quella location.
13/02/2023 11:57
 
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Re:
.piantamagra., 2/13/2023 11:18 AM:

Argomento interessante ma anche molto molto molto e ripeto molto delicato per il fatto che qualsiasi cosa si faccia si rischia, anche in buona fede, di far danni molto seri.
Penso che certi interventi vadano lasciati fare ad associazioni e/o università con le quali si può sempre collaborare magari avendo esperienza di anni nella coltivazione di una determinata pianta di un determinato areale a rischio.



No ma infatti i miei erano solamente domande per pura curiosita' - magari volte anche a capire alcuni movimenti di associaoni locali, che tra l'altro non conosco nei dettagli - ma senza nessuna intenzione di coinvolgimento personale (mi mancherebbero comunque sia la conoscenza che la competenza!). Semplice curiosita' nel capire come funzionano questi interventi
13/02/2023 14:56
 
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Sucuramente la persona giusta che potrebbe spiegartelo è Giulio Pandelli, provo a contattarlo.

13/02/2023 18:21
 
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Ciao Pana13,

sono tutte domande molto interessanti e spero quindi di risponderti in maniera sintetica ed esaustiva. Innanzitutto la conservazione in se prevede più punti o quesiti, ovvero cosa conservare, dove conservare e come conservare. Il primo punto verrebbe da pensarlo come la conservazione delle specie minacciate o a rischio di estinzione, ma è molto più di questo in realtà. Se pensassimo al termine biodiversità nel suo complesso, ovvero non comprendente solo la ricchezza di specie di una determinata zona, ci sarebbe da considerare anche la diversità degli ecosistemi, degli habitat, comunità, popolazioni, la vegetazione (insieme degli individui appartenenti a più specie che si trovano in coerenza con un dato sito, per mezzo dei quali, peraltro, si identificano iprecedenti habitat), le interazioni fra le varie specie, i microorganismi e, dulcis in fundo, un parametro importantissimo che è la genetica. Tanto per dare un’idea: potremmo avere una stessa specie magari ben distribuita nell'emisfero boreale e con un flusso genetico continuo fra le varie popolazioni vicine (es. Drosera rotundifolia in nord europa); o ancora, magari alla periferia del suo areale, assistere alla presenza di alcune stazioni relitte (dai tempi delle glaciazioni) estremamente separate su scala spazio/temporale rispetto alle precedenti alle alte latitudini (popolazioni relittuali di D. rotundifolia nell'Italia peninsulare). In queste situazioni, dato il grande periodo di isolamento, possono accadere degli eventi di differenziazione genetica che potrebbero portare pian piano a una conseguente speciazione delle stesse (speciazione allopatrica) e quindi, dovrebbero essere considerate con un occhio di riguardo in virtù delle loro particolarità genetiche (trattandole per esempio come delle unità significative dal punto di vista gestionale, evolutivo o genetico). Questa è per esempio la situazione di molte popolazioni di pinguicole endemiche che si son ritrovate isolate, magari in valli distinte, in piccoli anfratti rocciosi separate da diverso tempo; o ancora le stazioni relitte e più meridionali di Drosera rotundifolia che gestiamo con vari enti al centro Italia: in quest’ultimo caso la caratteristica var. corsica può essere vista, al di la del carattere fenotipico ben presente, anche come una differenziazione a livello genetico che ha permesso a queste popolazioni (attualmente le più meridionali e verosimilmente fra le più antiche) di sopravvivere meglio a quel determinato ambiente in contesto submediterraneo; o ancora, è stata ipotizzata come una sorta di reazione a uno stress, dovuto alla loro lunga presenza in un contesto sempre più ai margini del loro optimum ecologico. Qui si potrebbe aprire un’ulteriore parentesi anche sul lato riguardante la vegetazione e gli habitat: essendo D. rotundifolia e gli sfagni ancora presenti al Centro Italia dei relitti glaciali, mentre Osmunda regalis (la famosa Felce florida) un relitto tropicale terziario, avremmo un tipo di vegetazione peculiare (un'associazione locale) che ci segnala questa interessante fitocenosi non presente in quota o alle alte latitudini dove le torbiere abbondano. E quindi anche sul discorso vegetazionale ci sarebbe da fare un discorso a parte, visto che il connubio fra specie di clima freddo (la flora periglaciale giunta con le glaciazioni quaternarie) e tropicale (del precedente Terzario) è una situazione particolarmente difficile da riscontrare e meritevole di conservazione. Gli habitat di interesse comunitario della comunità europea (inclusi quelli prioritari) presentano generalmente un valore maggiore rispetto ai livelli che stanno subito sotto (comunità, popolazioni, tipi di vegetazione, specie, genetica ecc.) in quanto maggiormente inclusivi di tutte quelle varie situazioni che, a livello di biodiversità, ci è pressoché impossibile studiare nella loro interezza. Pensiamo anche a tutti i microorganismi, batteri ecc. che proliferano in un habitat insieme a piante e animali, per non parlare delle loro interazioni, forme di competizione e plasticità fenotipica per reagire a certe situazioni ambientali. In questi casi, come insegnano spesso all’università, bisognerebbe allontanarci dal termine stesso di BIODIVERSITA’, in quanto quest’ultima non sarà mai definibile completamente in un dato luogo; potremmo solo tentare di definire bene solo alcune parti della stessa. Gli habitat, dal punto di vista della conservazione, rappresentano gli oggetti di elezione su cui viene più comunemente ed efficacemente esplicata: salvaguardando un habitat si riesce a mantenere, generalmente in soddisfacente stato di salute, tutte le entità presenti al suo interno e con minor dispendio energetico ed economico. Sfortunatamente, quando c’è stato da proporre una lista degli stessi per la comunità europea, è stata adottata una visione europocentrica, probabilmente per mancanza di collegamento tra mondo scientifico italiano e ambiente legislativo europeo. Ciò si è tradotto nell’assenza di molti habitat italiani peculiari che ancora attendono di essere accettati, oppure nello scarso riconoscimento di alcune situazioni (es. molte zone umide) non adeguatamente attenzionate. Per esempio, se consultassimo gli habitat relativi alle torbiere, noteremmo che sono solo habitat comunitari anziché prioritari (gli habitat prioritari possono beneficiare di fondi europei tramite i noti progetti LIFE), mentre qua da noi, lo sappiamo bene, le torbiere sono situazioni parecchio frammentarie e in forte regressione; ci è andata di lusso almeno per le torbiere boscate (rarissime nel nostro paese) o le sorgenti pietrificanti con formazione di travertino del Cratoneurion (sostanzialmente le pareti umide calcaree dove talvolta possono essere presenti pure le pinguicole endemiche e non) figuranti attualmente come habitat prioritari. In quest’ultimo caso, nonostante le pinguicole rientrino fra le specie diagnostiche necessarie per definire l’habitat, sono sovente scarsamente rappresentate a livello statistico rispetto ad altre entità; l’interpretazione viene generalmente fatta sulla presenza di alcune briofite incrostanti (alleanza Cratoneurion commutati) che, grazie all’attività di fotosintesi, permettono di spostare l’equilibrio di reazione Ca(HCO3)2 → CaCO3 + H20 + CO2, con precipitazione del carbonato di calcio presente nelle acque dure (quello che poi darà origine alla matrice calcarea); a queste poi verranno aggiunte, se presenti, anche le poche piante superiori ( Saxifraga aizoides, Epilobium alsinifolium, Cardamine, Parnassia palustris, volendo anche Pinguicula sp. nei rari casi) per dare la combinazione fisionomica di riferimento con cui si risalirà all’habitat 7220* del Cratoneurion (i rilievi vegetazionali fitosociologici rappresentano lo strumento più utilizzato per risalire a un determinato habitat di interesse comunitario). Tutti gli habitat della comunità europea (nonché le specie di interesse comunitario) devono comunque essere monitorati ogni 6 anni tramite i ben noti rilievi vegetazionali e floristici, comunicandone poi gli esiti alla Commissione Europea; questo deve essere fatto sia per gli habitat all'interno della rete Natura2000 previsti dalla Direttiva (ZSC, SIC, ZPS), sia per gli habitat comunitari noti all'esterno (avete presenti i rilievi vegetazionali sulle dune costiere effettuati in concomitanza di alcuni dannosi concerti?). Gli obiettivi che si intendono perseguire con questa pratica sono diversi. Per esempio: il monitoraggio all'interno dei siti Natura2000 è fatto con lo scopo di verificare la bontà della loro gestione ai fini della conservazione di specie/habitat; o ancora, se effettuato all'esterno, darà prova dell’efficacia della Direttiva nello stato Membro nel suo complesso.

C’è anche un ultimo aspetto, anche questo estremamente importante, che riguarda la conservazione: i servizi ecosistemici. L’umanità esiste grazie ai servizi ecosistemici e alle risorse naturali ottenute dall’ambiente, dalla presenza di cicli biogeochimici e interazioni che governano la vita sul nostro pianeta ogni giorno. Pensiamo anche alla semplice conservazione di una piccola torbiera come le nostre: oltre a favorire la sopravvivenza di un habitat, fitocenosi peculiari, specie in forte rarefazione, genetica ecc. c’è anche tutto il discorso connesso alla disponibilità idrica: mantenendo la zona umida funzionale, evitando che la successione vegetazionale la trasformi dapprima in una prateria e poi in arbusteto, potrà continuare ad alimentare un bacino antincendio, importantissimo per spegnere gli incendi estivi; o ancora, se pensassimo alle grandi estensioni delle torbiere alle alte latitudini, ci verrebbe sicuramente in mente la loro gran capacità di stoccare ingenti quantità di carbonio atmosferico riducendo il surriscaldamento globale; o ancora mantenere, nelle loro profondità, tutta la storia climatica degli scorsi millenni, permettendoci di ricostruirla tramite pollini e resti fossili di piante. A tutti questi servizi ecosistemici (di approvvigionamento, culturali, di regolazione, di supporto) potremmo quindi dare un valore che, considerato nella sua globalità, risulterebbe inestimabile, rendendo possibile ogni giorno la nostra presenza su questo pianeta. O almeno fino a quando non li scombineremo del tutto.

Adesso partirò a rispondere alle domande proposte facendo una rapida premessa: l’introduzione di specie aliene, propaguli o ceppi genetici, a meno che non sia seguita da enti preposti e con particolari finalità legate alla gravità di determinate situazioni, rappresentano una pratica vietata per legge. Non solo, alcune di queste introduzioni volontarie o fatte da amatorialmente potrebbero comportare scompensi genetici nelle popolazioni, alterare il loro assetto genetico o, come già successo nel caso dell’aliena P. hirtiflora in Francia, andare a competere con l’autoctona P. reichenbachiana, rendendo necessarie delle misure di contenimento (e quindi costi economici) per salvarla. Oltre a questo è possibile, senza farci caso, introdurre specie di funghi, briofite o epatiche presenti nei vasi di nostra coltivazione, alcuni dei quali potenzialmente dannosi per molte specie autoctone presenti. Mi viene in mente per esempio il caso di Campylopus introflexus, briofita invasiva arrivata dall’emisfero australe, che ha comportato danni sui sistemi dunali del nord europa, negli ambienti geotermali e, dulcis in fundo, anche sui bordi delle torbiere e sfagnete nostrane. In breve, quando riusciva a svilupparsi, poteva andare a compromettere i nuclei di Drosera, epatiche rare ecc. scalzandoli e poi facendoli seccare durante l’estate: il recupero dei nuclei di sfagno, ad ogni modo, ha permesso di controllarlo efficacemente, riducendo quindi il rischio di una sua espansione. Dico questo perché nei nostri vasi è spesso presente C. pyriformis, specie appartenente allo stesso genere e molto vicina come comportamento, che potrebbe sfuggire alla coltivazione e andare a comportare danni in certi habitat. Come vedete bisogna sempre avere l’occhio su tutto quando si vanno a fare considerazioni su queste tematiche delicate.


1) Mi sembra di aver capito che, se un sito dove cresce un pianta carnivora viene distrutto non ci sia molto da fare.. ma qual e' la situazione nel caso che il sito sia "distrutto" solo temporaneamente?



In quel caso la cosa migliore da fare, qualora ci si appoggiasse a un'associazione, sarebbe di andare a chiedere ai proprietari, forestali, comune o regione di imbastire eventualmente un progetto in sinergia per salvaguardarla. Il procedimento non è affatto facile e spesso pieno di ostacoli, ma in genere ci siamo sempre mossi così in aipc per tentare di gestire certe situazioni sotto la supervisione di professionisti.


colonia di PC-A. Giusto un esempio.
In teoria, dopo qualche anno i lavori finiscono e la zona si dovrebbe rispristinare, con livello idrico originale.



Qui dipende. Ci sono zone umide che una volta recintate (vedi il caso delle nostrane in clima submediterraneo) necessiterebbero costantemente di interventi di sfalcio per impedire la successione vegetazionale guidata da specie termofile maggiormente favorite. Specie relittuali delle glaciazioni (sfagni, drosere) e altre entità di pregio non sopravvivrebbero a lungo senza la presenza di un pascolo moderato o di sfalci ben pianificati: verrebbero in breve tempo sopraffatte dalle specie banali dei bordi (es. Molinia, Rubus, Ulex, Pteridium, Erica a bassa quota, o Nardus, Rubus, Briza in situazioni montane su substrato acido)...sono entità particolarmente suscettibili al cambiamento climatico e scarsamente competitive nei confronti della vegetazione mediterranea in espansione. Tanto per fare un'esempio contrapposto: la loro eccezionale presenza nei nostri territori potrebbe essere comparabile al poter osservare piccoli lembi di macchia mediterranea all'interno della tundra artica. Una situazione quindi rarissima e meritevole di essere conservata. Alcuni di questi habitat di torbiera, vedi il caso di alcune situazioni nelle nostre regioni, sono stati mantenuti in buono stato di conservazione fino a quando si praticava la raccolta del "Sarello" (Carex elata) per l'impagliatura; cessata questa attività, molte zone zone umide si sono evolute in canneti o altre fitocenosi con specie banali (spesso con partecipazione di entità aliene invasive), perdendo molte elementi di interesse conservazionistico.


Secondo voi potrebbe essere utile/permesso/giusto prendere semi di PC-A, conservarli, e spargerli sul sito una volta che tutto e' tornato alla normalita'?



E' una cosa che dovrebbero fare e seguire le università tramite le banche del germoplasma. Noi lo potremmo fare solo in casi rarissimi, solo con determinate specie e, comunque, sempre sotto la loro supervisione per via della facilità di contaminazioni varie. Per esempio avevamo in mente di fare un progetto di conservazione su un ceppo di Utricularia vulgaris estinto in natura negli orti botanici e, magari, allargare a qualche coltivatore di fiducia, ma ciò richiederebbe un controllo ferrato che dobbiamo ancora mettere a punto con gli orti stessi (oltre a un'analisi genetica del materiale fresco con quello storico d'erbario).
Per le drosere la situazione si complica ulteriormente: oltre a essere più efficace e meno dispendioso proteggerle in natura con la gestione del loro habitat, la coltivazione ex situ presenta dei grossi problemi: pensiamo alla contaminazione genetica dovuta da individui conspecifici (magari giunti nella nostra collezione con i vasetti da garden o con gli sfagni del nord europa); alla possibilità di perdere il ceppo oggetto fra i nostri vasi oppure introdurre, assieme alle piante stesse, possibili briofite, funghi e/o contaminanti che poi andranno a minare l’habitat originario. Questa cosa è stata provata tante volte in trent’anni ma è risultato si è sempre tramutato in un fallimento. L’unico procedimento che potrebbe funzionare, già in parte sperimentato, è la coltivazione in vitro con successivo impianto su substrato sterilizzato: in quel modo uno ha la certificazione di mantenere il ceppo genetico intatto senza possibilità di contaminarlo con altro (sempre che l’interesse sia nell'ambito della genetica di popolazione e non tanto nel salvaguardare la specie in se, magari piuttosto diffusa).
Il vitro, tuttavia, può permettere l’insorgenza di mutazioni nel pool genetico originale e diminuire consistentemente la variabilità genetica, specie se le piante vengono moltiplicate costantemente per talea fogliare. E qui si entra in un discorso più ampio che prende in considerazione vari aspetti di tipo genetico: deriva genetica (ovvero che la popolazione naturale vada incontro a una perdita di alleli essenzialmente stocastica (dovuta al caso), col risultato di avere, alla fine, un numero di individui molto simili a livello genetico e quindi più vulnerabili ai cambiamenti ambientali); depressione da imbreeding (incrocio fra individui simili con riduzione di fitness nella progenie), da outbreeding (la progenie prodotta, derivante dall’incrocio di due individui di stazioni molto lontane, perde l’adattamento a entrambi gli ambienti di origine) e la minima popolazione vitale (popolazione in grado di sopravvivere per un certo lasso di tempo, calcolata su fattori demografici e genetici): quest’ultima viene spesso calcolata per verificare quanto un certo potenziale genetico (o individui prossimi alla reintroduzione) potranno tirare avanti, nel corso del tempo, per sostenere una popolazione e non vanificare gli sforzi ex situ; questo è anche il motivo per cui poche piante coltivate di un ceppo locato sarebbero completamente inutili per le introduzioni: la scarsa variabilità genetica, unità alla selezione praticata in cattività, produrrebbero delle popolazioni generalmente non in grado di autosostenersi dal punto di vista genetico per più generazioni, insieme a tutte le altre problematiche viste prima. Tutto questo va valutato antecedentemente al progetto di reintroduzione effettivo, analizzando il pool genetico delle varie popolazioni (distanze genetiche, eterozigosità osservata/attesa) per capire quali potrebbero essere geneticamente le più lontane o più vicine, stabilendo così delle priorità anche in seno alle differenze genetiche riscontrate. Va da se che se una popolazione divergesse nettamente dalle altre, assumerebbe automaticamente un interesse maggiore dal punto di vista della conservazione: maggiore sarà la distanza genetica, più potenziale evolutivo possiederà per diventare qualcosa di a se stante, rendendo quindi necessaria una gestione separata.


Riguardo alla conservazione ex situ...

La conservazione ex situ (utilizzata spesso come ultima spiaggia) prevede un costante flusso di materiale genetico dalla popolazione autoctona e la coltivazione praticata negli orti botanici, in maniera tale che si mantenga una popolazione “virtuale” ma pur sempre collegata con quella autoctona; per le piante carnivore, in virtù dei rischi presentati prima, è estremamente difficoltosa e pericolosa; oltrettutto, tenendo in vaso le piante per un certo tempo, si avvrebbe comunque solo un piccolo campione del pool genetico originale della stazione, spesso non sufficiente poi per evitare futuri problemi genetici. Per questo motivo viene effettuata sempre un'alisi genetica sulle popolazioni autoctone, in grado di evidenziare l'assetto genetico presente e prevederne quello futuro (sia con che senza reintroduzioni).



) Mettiamo il caso che la stessa specie di PC-A cresca anche in un altro sito (PC-B).
- Potrebbe andar bene prendere PC-B da sito B e trasportarla al sito A?
- Prendere semi di PC-B e spargerli su sito A?



In una situazione italiana, in virtù di quanto abbiamo già detto, comporterebbe un danno enorme oltre a essere vietato per legge. Può capitare nel nord europa dove tutte le zone umide sono in continuità e quindi anche il flusso genetico fra le varie popolazioni di una data specie è continuo. Qua da noi, dove le torbiere sono decisamente frammentate, all’estremo sud del loro centro di distribuzione attuale, abbiamo delle popolazioni di pc con una propria storia genetica alle spalle, in corso di differenziazione per isolamento e quindi sostanzialmente adattate a quei determinati contesti o microclimi locali. L’ingresso di ulteriori alleli distruggerebbe inevitabilmente la storia genetica di queste stazioni, con probabile perdita dell’adattamento e, conseguentemente, di alcuni caratteri fenotipici acquisiti nel corso di secoli/millenni.

Le zone umide dobbiamo vederle come “isole” in cui si sono conservati tipi di vegetazione, specie e pool genetici peculiari. Per quello dobbiamo adottare dei metodi che ci permettano di conservarle come singole unità mantenendo il loro attuale isolamento. Un grosso pericolo che riguarda noi appassionati è legato al trasporto involontario di semi o propaguli dalle nostre collezioni che potrebbero rimanere adesi ai vestiti ed essere trasportati ovunque. Celebri sono i casi in nuova zelanda (Drosera capensis vietata dalla vendita per compromissione di molte zone umide autoctone) o ancora in Patagonia (presunto trasporto di Drosera rotundifolia che ha messo in pericolo molte entità autoctone).

E quindi importante prestare particolare attenzione alla pulizia delle nostre scarpe e vestiti nel caso di visite alle zone umide nostrane, dato che basta veramente poco per comprometterle.


- ci sono altre cose che sono permesse o giuste da fare, che magari non mi sono venute in mente?



Ci penserò su, ma sicuramente sostenere gli enti e le associazioni che portano avanti questi progetti potrebbe essere già un buon punto di partenza.
[Modificato da pandalf85 25/02/2023 18:16]
14/02/2023 08:17
 
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Ciao Pandalf, non so come ringraziarti per la risposta molto piu' che esaustiva. Ti ringrazio davvero tanto per l'impegno, l'energia ed il tempo che ci hai dedicato. Mi ci vorra' un po' di tempo per "digerirla" bene, nel senso che tanti termini o situazioni non le conosco e provero' a documentarmi il meglio possibile in questi giorni.
Tantissimi pensieri e situazioni che hai citato sono davvero interessantissimi. Devo essere sincero, la tua e' una risposta che apre un mondo e fa vedere tutto da prospettive diverse. Come dicevo, provero' a documentarmi il meglio possibile, nel frattempo, se hai qualche riferimento bibliografico che pensi esser utile... :)

Forse avrei dovuto anche specificare il fatto che vivo in Repubblica Ceca. Non che ci sia molta differenza in quanto all'importanza di preservare gli habitat, ma magari alcune situazioni peculiari sono un po' diverse.
Questa discussione e' nata da alcuni dubbi che mi son venuti appunto discutendo su alcune situazioni con persone dell'associazione locale. La pianta in questione e' la bellissima P. bohemica. Ma davvero il mio voleva essere solo un esempio generale per cercare di capire al meglio i meccanismi di questi interventi.
[Ci tengo a precisare che ovviamente l'organizzazione locale ha tutte le approvazioni dal governo - anche se a volte arrivano un po' troppo tardi - e collabora con l'universita'.]

pandalf85, 2/13/2023 6:21 PM:


E qui si entra in un discorso più ampio che prende in considerazione vari aspetti di tipo genetico: deriva genetica (ovvero che la popolazione naturale vada incontro a una perdita di alleli essenzialmente stocastica (dovuta al caso), col risultato di avere, alla fine, un numero di individui molto simili a livello genetico e quindi più vulnerabili ai cambiamenti ambientali); depressione da imbreeding (incrocio fra individui simili con riduzione di fitness nella progenie), da outbreeding (la progenie prodotta, derivante dall’incrocio di due individui di stazioni molto lontane, perde l’adattamento a entrambi gli ambienti di origine) e la minima popolazione vitale (popolazione in grado di sopravvivere per un certo lasso di tempo, calcolata su fattori demografici e genetici): quest’ultima viene spesso calcolata per verificare quanto un certo potenziale genetico (o individui prossimi alla reintroduzione) potranno tirare avanti, nel corso del tempo, per sostenere una popolazione e non vanificare gli sforzi ex situ; questo è anche il motivo per cui poche piante coltivate di un ceppo locato sarebbero completamente inutili per le introduzioni: la scarsa variabilità genetica, unità alla selezione praticata in cattività, produrrebbero delle popolazioni generalmente non in grado di autosostenersi dal punto di vista genetico per più generazioni, insieme a tutte le altre problematiche viste prima.


Questa e' decisamente la parte piu' interessante per me. Ci avevo pensato in effetti, che prendere semi da poche piante potrebbe non servire a molto a lungo termine. Mi fa piacere leggere, con ampio approfondimento, che quello che mi era balenato in testa non fosse errato.
Certo... mi piacerebbe davvero approfondire.

Bene, per ora ti ringrazio tantissimo ancora!

14/02/2023 08:58
 
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Pana13, 14/02/2023 08:17:

Ciao Pandalf, non so come ringraziarti per la risposta molto piu' che esaustiva. Ti ringrazio davvero tanto per l'impegno, l'energia ed il tempo che ci hai dedicato. Mi ci vorra' un po' di tempo per "digerirla" bene, nel senso che tanti termini o situazioni non le conosco e provero' a documentarmi il meglio possibile in questi giorni.
Tantissimi pensieri e situazioni che hai citato sono davvero interessantissimi. Devo essere sincero, la tua e' una risposta che apre un mondo e fa vedere tutto da prospettive diverse. Come dicevo, provero' a documentarmi il meglio possibile, nel frattempo, se hai qualche riferimento bibliografico che pensi esser utile... :)

Forse avrei dovuto anche specificare il fatto che vivo in Repubblica Ceca. Non che ci sia molta differenza in quanto all'importanza di preservare gli habitat, ma magari alcune situazioni peculiari sono un po' diverse.
Questa discussione e' nata da alcuni dubbi che mi son venuti appunto discutendo su alcune situazioni con persone dell'associazione locale. La pianta in questione e' la bellissima P. bohemica. Ma davvero il mio voleva essere solo un esempio generale per cercare di capire al meglio i meccanismi di questi interventi.
[Ci tengo a precisare che ovviamente l'organizzazione locale ha tutte le approvazioni dal governo - anche se a volte arrivano un po' troppo tardi - e collabora con l'universita'.]


Questa e' decisamente la parte piu' interessante per me. Ci avevo pensato in effetti, che prendere semi da poche piante potrebbe non servire a molto a lungo termine. Mi fa piacere leggere, con ampio approfondimento, che quello che mi era balenato in testa non fosse errato.
Certo... mi piacerebbe davvero approfondire.

Bene, per ora ti ringrazio tantissimo ancora!


Si, hai ragione. In Repubblica Ceca abbiamo una situazione un po' diversa da quella italiana. In ogni caso fammi sapere nel caso ci fossero parti poco chiare :)

Un saluto e a presto

Giulio
[Modificato da pandalf85 14/02/2023 09:02]
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pandalf85, 14/02/2023 08:58:

Si, hai ragione. In Repubblica Ceca abbiamo una situazione un po' diversa da quella italiana. In ogni caso fammi sapere nel caso ci fossero parti poco chiare :)

Un saluto e a presto

Giulio

Grazie mille, Giulio!
Un saluto
14/02/2023 14:30
 
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Grazie Giulio, ho letto e riletto tutto con interesse e come Alessandro anch'io sicuramente rileggerò il tuo intervento per far miei molti dei concetti che disconoscevo e che di primo acchitto, per la ignoranza in materia, non ho ben compreso.
Grazie ancora.
23/02/2023 22:48
 
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L'idea è sicuramente interessante, avevo pensato anche io una cosa del genere tempo fa (c'è ancora la discussione da qualche parte).
Concordo che sarebbe tremendamente sbagliato farlo così a casaccio, ma credo che con le giuste accortezze chiunque di noi sarebbe teoricamente in grado di farlo in sicurezza. D'altronde non si sta parlando di gettare dei semi o delle talee in mezzo alle proprie piante acquistate e poi recuperarle l'anno dopo andando a tentoni, ma di una vera e propria riproduzione/conservazione dedicata.
Se prendi dei semi di una pianta in un tal punto, li fai germinare in un vaso isolato, fai fiorire le piantine e la montagna di semi che recuperi la spargi nel luogo di origine non ci può essere alcuna contaminazione.
A me è capitata una cosa simile con lo sfagno, più di una volta lungo i sentieri ho trovato zolle divelte (questo autunno una, ghiacciata, grande quanto due palloni da calcio), le ho prese e portate più in su fino ad un luogo idoneo dove spero abbiano attecchito. Ma anche se le avessi portate nel bosco sulla montagna di fronte non ci sarebbero stati problemi genetici, visto che non si tratta di popolazioni isolate, e anzi spesso la diversità aumenta la resilienza.
Ci sono un sacco di aree umide non riconosciute che vengono rovinate dal pascolo o da altri interventi umani, ripopolarle con esemplari che magari provengono da 200 metri più in alto mi sembra meglio che perderle del tutto no?


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24/02/2023 21:38
 
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Re:
Icchy92, 23/02/2023 22:48:

L'idea è sicuramente interessante, avevo pensato anche io una cosa del genere tempo fa (c'è ancora la discussione da qualche parte).
Concordo che sarebbe tremendamente sbagliato farlo così a casaccio, ma credo che con le giuste accortezze chiunque di noi sarebbe teoricamente in grado di farlo in sicurezza.
A me è capitata una cosa simile con lo sfagno, più di una volta lungo i sentieri ho trovato zolle divelte (questo autunno una, ghiacciata, grande quanto due palloni da calcio), le ho prese e portate più in su fino ad un luogo idoneo dove spero abbiano attecchito. Ma anche se le avessi portate nel bosco sulla montagna di fronte non ci sarebbero stati problemi genetici, visto che non si tratta di popolazioni isolate, e anzi spesso la diversità aumenta la resilienza.
Ci sono un sacco di aree umide non riconosciute che vengono rovinate dal pascolo o da altri interventi umani, ripopolarle con esemplari che magari provengono da 200 metri più in alto mi sembra meglio che perderle del tutto no?



Come già scritto ampiamente sopra l'introduzione è una cosa che non può fare il semplice appassionato, sia per questioni legate alla legge sia per gli importanti danni che potrebbe causare inconsapevolmente. Il portare anche solo dei semplici sfagni in un'altra area, dove magari persistono altre specie di interesse conservazionistico (o magari anche altri ceppi di sfagno) potrebbero determinare degli effetti di competizione imprevisti, inficiando anche interventi gestionali già in essere su tali aree.


Ci sono un sacco di aree umide non riconosciute che vengono rovinate dal pascolo o da altri interventi umani, ripopolarle con esemplari che magari provengono da 200 metri più in alto mi sembra meglio che perderle del tutto no?



Ti ripeto, deve essere fatto da professionisti questo lavoro. Ci sono alcune situazioni dove il pascolo moderato è addirittura necessario per mantenere in soddisfacente stato di salute alcune zone umide a bassa quota.



A me è capitata una cosa simile con lo sfagno, più di una volta lungo i sentieri ho trovato zolle divelte (questo autunno una, ghiacciata, grande quanto due palloni da calcio),
Ma anche se le avessi portate nel bosco sulla montagna di fronte non ci sarebbero stati problemi genetici, visto che non si tratta di popolazioni isolate, e anzi spesso la diversità aumenta la resilienza.



A mio modo di vedere sono affermazioni che potrebbero compromettere molte situazioni importanti se emulate. Pratiche, portate avanti da persone inconsapevoli, che sicuramente metterebbero in cattiva luce tutta la comunità carnivora oltre all'autore del gesto.


le ho prese e portate più in su fino ad un luogo idoneo dove spero abbiano attecchito.



E magari lì ci potrebbero essere state altre situazioni ancora più meritevoli di conservazione, non legate a sfagni e piante carnivore, che adesso subiranno gli effetti di una introduzione non prevista. Questo non è fare conservazione, è privilegiare alcune specie di interesse personale rispetto ad altre, non preoccupandosi, di fatto, delle ricadute sugli altri livelli sopra menzionati. E' veramente pericoloso suggerire di fare queste cose a chi è sprovvisto delle necessarie competenze in ambito accademico.


e anzi spesso la diversità aumenta la resilienza.



Ci sono casi in cui potrebbe invece accadere l'effetto opposto (depressione da esoincrocio); oppure, ancora, determinare con un'azione sconsiderata la possibile perdita della storia evolutiva di alcune popolazioni in corso di differenziazione.
[Modificato da pandalf85 25/02/2023 11:05]
26/02/2023 18:02
 
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Mi ricollego a quanto scritto da Giulio per ribadire alcuni concetti che probabilmente a molti che non si occupano di questo, forse sfugge. Premetto che mi occupo della conservazione ex situ di semi presso la banca del germoplasma dell'Università di Bari. Tra questi semi ci sono anche quelli di Pinguicula hirtiflora. Fatta questa doverosa premessa, sappiate che è vietato la raccolta di qualsivoglia parte non solo della flora ma di tutto ciò che ha a che fare con la natura, se non dopo autorizzazione ricevuta dagli enti preposti e solo per attività di ricerca scientifica. Tutto il resto chi lo fa è passibile di denuncia penale.
Stessa cosa dicasi per l'introduzione volontaria di specie nuove in zone dove tali specie non sono state mai presenti. Ed è assolutamente da evitare l'introduzione di nuovi individui che però non fanno parte della popolazione di una determinata stazione. Questo potrebbe provocare gravi danni ad un intero ecosistema. Quello che può sembrare un'attività mossa da buone intenzioni potrebbe creare grossi problemi. Per cui lasciate che di questo se ne occupino professionisti che sanno come fare le cose.


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Re:
_keeper_, 26/02/2023 18:02:

Mi ricollego a quanto scritto da Giulio per ribadire alcuni concetti che probabilmente a molti che non si occupano di questo, forse sfugge. Premetto che mi occupo della conservazione ex situ di semi presso la banca del germoplasma dell'Università di Bari. Tra questi semi ci sono anche quelli di Pinguicula hirtiflora. Fatta questa doverosa premessa, sappiate che è vietato la raccolta di qualsivoglia parte non solo della flora ma di tutto ciò che ha a che fare con la natura, se non dopo autorizzazione ricevuta dagli enti preposti e solo per attività di ricerca scientifica. Tutto il resto chi lo fa è passibile di denuncia penale.
Stessa cosa dicasi per l'introduzione volontaria di specie nuove in zone dove tali specie non sono state mai presenti. Ed è assolutamente da evitare l'introduzione di nuovi individui che però non fanno parte della popolazione di una determinata stazione. Questo potrebbe provocare gravi danni ad un intero ecosistema. Quello che può sembrare un'attività mossa da buone intenzioni potrebbe creare grossi problemi. Per cui lasciate che di questo se ne occupino professionisti che sanno come fare le cose.




Tu però ti riferisci a siti particolari e unici, io invece parlavo più in generale di boschi e zone umide diffuse che per loro natura non hanno differenze sostanziali tra una e l'altra e presentano le medesime specie.
Non credo proprio che delle piantine di D. rotundifolia che crescono in un punto siano così diverse e particolari rispetto a quelle che si trovano a 100 metri di distanza, come lo sfagno che cresce a mucchietti lungo tutto il versante di una montagna non è diverso da quello che potrei trovare nel vallone poche centinaia di metri più in alto.
E ovviamente nessuno qui intende diffondere piante aliene, si parlava al massimo di preservare le specie già presenti.


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26/02/2023 23:45
 
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Se conoscessi effettivamente gli sfagni, come si identificano e dei loro effetti su alcune aree, ti guarderesti bene dallo scrivere ciò. Ci sono situazioni in cui gli sfagni appartenenti a una stessa sezione potrebbero addirittura ibridarsi se entrassero in simpatria (es. S. capillifolium e S. quinquefarium della sez. Acutifolia) o, ancora, determinare la scomparsa di altre specie simili a livello macroscopico ma in forte regressione. Nel piano subalpino l'ulteriore aumento degli sfagni negli ultimi 20 anni ha velocizzato l'interrimento delle zone umide, promuovendo inoltre l'avanzamento delle praterie acidofile a nardo (Nardus stricta) e gli arbusteti (Rubus idaeus) con perdita di molte specie igrofile legate ai depositi torbosi e/o letti inorganici: ci mancherebbe solo vedere delle persone sconsiderate dedite a piazzarli in posti e aree sensibili, in cui le piante carnivore rivestono un ruolo veramente marginale.



come lo sfagno che cresce a mucchietti lungo tutto il versante di una montagna non è diverso da quello che potrei trovare nel vallone poche centinaia di metri più in alto.



Purtroppo ti sbagli: in Italia abbiamo una gran rappresentazione di queste situazioni in cui si rinvengono anche molte specie affini identificabili solo su base microscopica. Traslocarle in punti diversi della stessa vallata potrebbe provocare la scomparsa di entità conogeneriche in forte regressione, piante superiori, microhabitat e fitocenosi presenti solo in determinati punti.



[Modificato da pandalf85 27/02/2023 11:21]
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